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CORRIERE DELLO SPORT Montella: “La mia verità? E’ stata la Roma a non volermi”

Vincenzo Montella

(Corriere dello Sport) – Lei è un allenatore che si sta imponendo non solo per caratteristiche riguardanti la tecnica, ma per uno stile originale e diverso da quello più urlato, più simile a quello inglese. Lei è così anche nello spogliatoio?
«Io penso di essere me stesso, non recito. Posso dire che ero così anche da calciatore, a parte le esultanze sotto la curva dopo un gol non ho mai esagerato. Difficilmente ho mancato di rispetto agli avversari, è il mio modo di essere. Ci si può far capire anche se non si alza la voce, se si è convinti di quello che si dice».

I risultati, positivi o negativi, la lasciano sempre nel dopo partita con un’analisi molto lucida, serena.

«Credo che sia il compito dell’allenatore quello di valutare le reazioni dei giocatori, quando pensano di subire dei torti. Se pensi di subire dei torti, devi reagire nella maniera opposta, per ovviare alla percezione di fatti che, magari, nella realtà delle cose sono avvenuti in modo diverso. Se ci si estranea un po’ è meglio».
La sfuriata di Galliani dopo la partita con l’Inter rappresenta una linea di difesa. La Fiorentina, invece, ha scelto il basso profilo, nonostante qualche arbitraggio contrario, tipo con l’Inter o con il Bologna.
«Io non parlo degli arbitri, non ha senso. A volte vieni palesemente penalizzato, a volte pensi di esserlo e poi scopri che ti sbagliavi. Penso al rigore dato all’Inter contro di noi, al gol di Montolivo. Sono quelle situazioni al limite, dove comunque qualcuno si scontenta».
Lei viene da un paesino vicino Napoli: quell’esperienza le ha lasciato qualcosa? Che cosa ritiene di aver acquisito?
«La mia è stata un’infanzia felicissima fino a dodici anni. Quinto di cinque fratelli, mio padre lavorava costantemente, per cui ho avuto la possibilità di crescere libero, giocando a pallone, felice anche se non ricchissimo, così come ho vissuto l’esperienza a Empoli dai tredici anni in poi, scoprendo mondi e culture diverse».
Appunto, lei che viene dal Sud, che sensazione ha di questo Paese?
«Ci sono tante differenze, grandissime e a volte anche piccole, è un discorso un po’ ampio per sintetizzarlo in poche parole. Direi però che l’umanità che si vive al Sud è molto più forte, mentre al Nord c’è più attenzione alle regole e al lavoro».
Lei si ritiene un allenatore umano?
«Direi una persona perbene».
Lei sta realizzando un piccolo miracolo a Firenze, dando un gioco che si impone in tutto il resto del campionato. Come ci è riuscito?
«Più o meno con celerità, ma questo dipende dall’organizzazione del club, dalle scelte di mercato, dall’indirizzo, dalla disponibilità dei giocatori, e poi il lavoro sul campo. Ho trovato la disponibilità dei nuovi e la voglia di rivalsa di chi è rimasto».
I giocatori dicono che ai suoi allenamenti si divertono. In cosa consiste il divertimento?
«Ogni allenamento è volto a quello che può succedere in campo, tutti gli aspetti fisici vengono toccati con il pallone».
Oggi come è cambiata la metodologia degli allenamenti?
«Intanto rispetto al passato si sa che cosa può succedere nella partita, conosciamo tutto degli avversari, ci sono molti più mezzi per conoscere il tipo di avversario, e allora puoi allenare il giocatore in modo specifico, e questo lo fai con il pallone. E a livello cognitivo è stato dimostrato che la mente ricorda tutto ciò che fa, se utilizziamo il pallone».

Vedendo il suo Catania dell’anno scorso, lei cambiò moduli durante la stagione. Pensa di fare lo stesso con la Fiorentina?
«Abbiamo costruito in estate la squadra per un 4-3-3 e poi abbiamo cambiato e le cose stanno andando bene. Per esempio, Jovetic per me gioca meglio con un attaccante vicino e questo porta a modificare le cose…».

Ecco, ora c’è il modello Barcellona. Tutti piccoli e veloci. Una rivincita?
«Prendere il Barcellona come esempio credo sia sbagliato, perché è straordinario, unico, ma è vero che negli ultimi anni sono tornati di moda gli attaccanti piccoli».
Non c’è bisogno di fare wrestling.
«L’importante è che siano bravi».
A volte si «irrobustivano» troppo.
«Quello è un tema delicato… Se uno è rapido e scattante con la sua fisicità, penso sia sbagliato aggiungere altre caratteristiche muscolari».
Un anno e mezzo fa allenava i Giovanissimi della Roma, ora è in un grande club. La Fiorentina è un punto di partenza o d’arrivo?
«Questa è una domanda ‘romana’… Ma sia detto senza offesa, è che si ritorna sempre alla Roma… Posso dire che sono tutte e due le cose, punto di partenza e d’arrivo, io sono ambizioso. Il mio obiettivo intanto è conservare il posto, perché ho imparato che nel calcio bisogna restare aggrappati a un posto di prim’ordine, perché la volontà con questa società è di creare qualcosa di importante. Lasciamo perdere la fantasia».
Lei ha giocato con Guardiola, nella Roma avete condiviso anche molte partite viste dalla panchina. Scambiaste qualche idea di calcio?
«Abbiamo parlato spesso, è uno dei pochi giocatori che è stato a casa mia, è una persona molto intelligente. Lui ha fatto scelte coraggiose, via Ronaldinho, via Eto’o, sicuramente la sua innovazione è aver convinto col suo carisma i campioni a giocare l’uno per l’altro. Non è facile, così come quando la squadra perde palla riesce a riconquistarla subito. Pep ha inculcato a tutti la transizione negativa, il recupero della palla nel minor tempo possibile».
Lei, al termine di Roma-Catania del campionato scorso, era idealmente e potenzialmente l’allenatore della Roma: perché non lo è diventato?
«Perché non c’è stata la possibilità. Ci sono stati contatti, a voi l’hanno detto prima, ma non sono diventato allenatore perché non c’erano le condizioni, non sono stato scelto. Sono state dette alcune cose, anche esagerate…».
Tipo che lei avesse chiesto giocatori adatti al suo progetto e non l’avrebbero accontentata?
«Vedo che sapete più cose di me».
Che traguardi le ha chiesto, invece, la Fiorentina?
«Di tornare a divertire e avere una identità».
Dov’è che finisce il divertimento e diventa solo un guardarsi allo specchio? La gente a Firenze è contenta, ma servono anche i risultati. Dov’è l’asticella?
«Non è facile dare una dimensione alla nostra squadra, perché siamo tutti nuovi. E’ difficile, molto spesso dipende dagli avversari. Ma noi abbiamo margini di miglioramento e vogliamo vincere».
La parola Europa la infastidisce o è un’ipotesi?
«E’ un’ipotesi, non mi infastidisce ma parlarne in questo momento è inutile. Già sentivo dire che se non avessimo battuto il Bologna, si apriva una piccola crisi. Siamo in sintonia con la società, c’è un’identità e vogliamo portarla avanti e rinforzarla col tempo».
Grande programmazione negli acquisti, ma alla fine è saltato Berbatov. Quanto le pesa questo elemento mancante?

«Sinceramente non mi pesa, se guardo quello che è stato fatto è incredibile, sia in entrata sia in uscita. Pradé ha fatto un grande lavoro. Tutta la società si è mossa benissimo. Poi c’è stato questo episodio dell’ultimo giorno, ma abbiamo giocatori in grado di imporsi. Le risorse da qui a gennaio ce le abbiamo, poi valuteremo».
A gennaio, lei dice. Bergessio, Lisandro Lopez…: avrebbero una logica nel suo gioco?
«Sì, anche se con Bergessio non ci ho mai parlato, ma mi piace per lo spirito di gruppo, l’impegno. Secondo me, farebbe le fortune di qualsiasi squadra, anche di primo livello. E’ uno che si spende per i compagni, piace a ogni tecnico».
Ma ora qual è il partner ideale di Jovetic?
«Toni per caratteristiche fisiche è l’opposto di Jovetic e Ljajic: fa comodo. Così come lo stesso Ljajic e El Hamdaoui. Sono tutti utili».
Foste andati in Inghilterra a prendere Berbatov, invece di aspettarlo all’aeroporto…
«C’è una tacita consuetudine tra i club secondo cui quando un giocatore sale su un aereo è ormai dell’altro club, ma pazienza…».

E’ un campionato equilibrato, lei è d’accordo?
«In generale direi di sì, c’è molta incertezza, anche nella lotta per la salvezza».
Il Milan potrebbe non occupare il posto che ci si aspetta.
«Queste sono squadre che, se penso all’orgoglio dei giocatori, possono rientrare, non per lo scudetto, ma tra le grandi. Magari prima di Natale».
La vostra… avversaria principale per lo scudetto, diciamo scherzosamente, l’avete fermata.
«Ma non l’abbiamo battuta».

Come ha trovato la Juve di Conte?

«Ha creato una squadra che crede in quello che fa, con grande furore e lo mantiene per novantacinque minuti».
Avendo affrontato il Napoli e la Juve: che idea si è fatto del duello per lo scudetto?
«Mah, io credo che ci siano indicazioni non trascurabili: quando una squadra vince con il minimo sforzo è un grande segno. Il Napoli ha vinto con la Fiorentina in questo modo, per me è il segno di una squadra che può competere per il titolo».
Il 3-5-2 può essere considerato il nuovo dna del nostro calcio, visto che molte squadre cominciando ad adottarlo?
«Si dà troppa importanza al modulo. Contro il Catania all’inizio avevamo il 3-5-2, poi non l’abbiamo utilizzato perché se hai Cuadrado, che è offensivo ed esce di più rispetto a Pasqual, diventa un 4-4-2 o un 4-3-3».
Per entrare nella sua psicologia: se deve comunicare a un giocatore l’esclusione, lei si comporta più come Capello o Spalletti?
«E’ normale che devi capire con chi hai a che fare, se devi mettere Jovetic in panchina avrebbe bisogno che lo sapesse prima. Così come Totti. Se sai invece di andare in panchina sempre, è inutile dirlo. Io ai tecnici dicevo: ma come, vado in panchina e vieni pure a dirmelo?».
Montella ha sempre avuto parole dolci per Eriksson. Cosa aveva di speciale?
«Ricordo che una volta mi ero attardato, la società aveva chiamato i vicini di casa perché non mi trovavano, io ero sempre puntuale ma quella volta mi presentai all’allenamento con mezz’ora di ritardo. Ricordo che sudavo tutto, quando mi presentai davanti a Eriksson, ma lui rispose sereno: nessun problema, domani porterai le paste per tutti…».
Lei ha avuto molti allenatori nella sua carriera di calciatore. A chi si è ispirato?
«A nessuno. Uno degli errori che non deve fare un allenatore è somigliare a qualcuno che non è, il giocatore ti analizza ogni giorno e allora ti smaschererebbe, quindi non puoi fingere. Comunque, preferisco il dialogo al litigio».
In questo prime sette partite, qual è stato il momento migliore della Fiorentina?
«Direi per continuità e intensità, quella con la Juve. Tutti hanno detto che noi abbiamo corso tanto, in realtà abbiamo fatto correre molto di più la Juve».
Adesso che a Conte è stata ridotta la squalifica, cosa ne pensa?
«Non ho seguito molto il calcioscommesse, ho solo detto che umanamente sono contento per Conte, perché immaginavo cosa stesse provando. Immagino che abbia sofferto molto a restare fuori, come al debutto in Champions che si era conquistato con il lavoro».
Le scommesse, però, restano il problema più grave. Perché i giocatori sono così deboli di fronte a determinate cose?
«E’ una domanda che riguarda la società in generale, perché non sono soltanto i giocatori a essere deboli, ma tante persone, è un problema sociale».

C’è, invece, una bella scommessa vinta: un difensore di cui Firenze si è innamorata. E’ ormai un personaggio cult. Lo è anche nello spogliatoio? (Non viene mai citato il nome di Facundo Roncaglia, ma non c’è bisogno).
Sorride «Credo sia inconsapevole di quello che sta vivendo…».
Tornando al suo tratto psicologico: riuscirebbe a escludere un campione e a spiegarlo alla piazza, col rischio di deprezzarlo o metterlo in difficoltà?

«Anche i campioni possono andare in panchina, basta essere chiari. Io ci sono andato tantissime volte».
Pensavamo a De Rossi e Zeman.
Sospira. «Ah, io pensavo mi voleste chiedere di Jovetic. Per una volta non ho capito la domanda in anticipo».
Dunque?
«Sono contento di non avere questo problema».
A sensazione, quanto resterà Jovetic a Firenze?
«Rispondo con una battuta: spero almeno fino a gennaio».

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