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KANSAS CITY 1927 La revoluciòn a Bratislava

Luis Enrique

Kansas City 1927. Verso la revoluciòn. Dice: ma come fai un blog sulla squadra tua e lo chiami così? Non ce metti in mezzo manco un “onore”, una “tradizione”, un “antichi sapori”? Ma ancora prima dice: ma come, fai un blog sulla squadra tua, un blog “depallone”? Nel 2011? Eh, quando er gioco se fa perplesso, i perplessi cominciano a giocà. E poi, come te lo spiego, parlà de Roma non è parla “depallone”, non solo quantomeno. Parlà de Roma è parlà de gente bellissima e terrificante, de maniche de pippe e de campioni assoluti, de un popolo in cammino verso un soddisfazione che ormai, a forza de mannà giù merda, è diventata qualcosa de più e de troppo, na specie de riscatto sociale in pay per view. Na soddisfazione che manco se ricordamo ndo sta de casa, ma che chi c’ha la memoria bona ogni tanto je ricorda all’altri che ne vale la pena. E allora camminiamo, popolo in cammino, portamo sta croce e sta delizia. La prima stazione de sta via crucis sembrava facile facile, e pure vagamente pedagogica, co quella trasferta in slovacchia che avrebbe pure insegnato a un sacco de gente:

a) che esiste la Slovacchia

b) che non è la Slovenia

c) ndo sta la Slovacchia

d) che è un pezzo de Cecoslovacchia

e) che l’altro pezzo è la Repubblica Ceca

e) che le slovacche so bone come er pane

Che poi alla fine, in fondo in fondo, se vai a guardà bene, non s’è demeritato. Mo lascia perde che gli slovacchi erano scarsi scarsi e che differentemente da tutti i loro predecessori più recenti nella nostra storia (di avversari scarsi, non slovacchi), manco jannava de provà a vince, e che a differenza di tutti gli stadi de squadre scarse che li hanno preceduti sta bombonera bratislava non sembrava manco particolarmente calda, o almeno così pareva in tv.

Insomma, se poteva fa tuttosommato. Quello c’era venuto apposta dall’America, che voio dì, a proposito de lezioni de geografia, già pe un americano deve esse difficile capacitasse che esiste altro all’infuori dell’Ohio, aveva fatto lo sforzo de localizzà l’Italia e Roma, aveva chiuso er closing, aveva branto er brunch e ciarto er charter fino a Bratsislava e arrivato lì s’è trovato davanti una selezione mista primavera/vecchie glorie.

Aveva inquadrato le porte, preso un cheeseburger a base de gulash (che è ungherese, ma mo non è che uno po azzeccà tutto subito alla prima uscita) e nel momento esatto in cui ha chiesto la formazione a Sabatini ja detto e Totti? Ndo sta Totti? E sto Okaka? Chi è Okaka? Ma ormai era tardi. Il giovane più vecchio del mondo aveva già cominciato a dare inutili sportellate a mansueti avversari, timbrato la tibia del portiere e mandato in curva, qualora quello stadio avesse avuto na curva, un pur pregevole assist del volenteroso Caprari.

Che se le parole c’hanno ancora un senso, ce sarà un motivo se quello che s’è ambientato mejo de tutti, è uno che de nome c’ha la vera professione degli avversari tuoi, che tra una sessione e l’altra de pastorizia se dedicano occasionalmente al gioco del calcio. Lui però porello c’ha l’anni che c’ha e oltre er palo non s’è spinto. I caprari veri invece se ne so stati boni boni tutta la partita e a na certa, hanno visto Perrotta e gli è venuto il sospetto, poi co Totti e Borriello c’hanno avuto come un’illuminazione: aò ma stamo a giocà co la roma! Provamo a fà un gol dai! E quando ce provi capace pure che ce riesci, hai visto mai.

Che poi, a furia de fa gli spiritosi, se semo dimenticati subito subito che manco nanno fa, de sti tempi, sti stessi caprari o boscaioli o postini o comunque aspiranti Caprari, c’avevano mannato a casa da quel del Sudafrica, che vojo dì, per quanto uno possa odià Lippi, non è comunque un bel ricordo. E insomma, quando le inutili e psichedeliche percentuali del possesso palla dicevano che i nuovi schemi erano pressoché introiettati, quando già ci si cominciava a dire beh, no 0-0 fori è bono, difesa granitica, Burdisso è argentino e je rode sempre er culo pure in Slovacchia, Cassetti te dirò invecchiando migliora, Cicinho pe esse così abbronzato se deve esse allenato più dell’altri e se vede, Jose Angel beh, dai, bel nome, ma soprattutto Stekelenburg, ao, Stekelenburg, ma quanto cazzo è alto Stekelenburg?

L’avevamo visto pure all’aereoporto mentre partivano pe sta campagna de mezza estate e s’era dovuto abbassà pe passà sotto il metal detector, e tu lo capisci da te che se manco un metal detector de fiumicino te contiene, na porta de Bratislava te la magni a colazione. E invece com’è come non è, vuoi er vento che spira dai Balcani, vuoi le luci sicuramente non a norma, vuoi la forte pressione ambientale della bombonera, il gigante s’è mezzo accartocciato, e la bambina slovacca j’ha fatto na pernacchia. Non è proprio na papera, ma l’onestà intellettuale ce impone de ricordà che se l’avesse fatto Doni a quest’ora staremmo all’anagrafe de un paesino brasiliano a chiede i nomi dei suoi più remoti antenati pe esse più precisi possibili nelle offese.

E a nulla è valso il rasposo e volenteroso e aggressivo e feroce rush finale, a nulla è valso il tourbillon di cambi orchestrato dal tecnico asturiano (che pure ste Asturie ndo cazzo stanno è tutta da capì) con l’improvviso inserimento dell’emergente Totti Francesco e dell’emerso e sommerso Borriello Marco, a nulla è valso tenere in panchina Rosi, a nulla è valso tornare negli spogliatoi, mettersi improvvisamente a ridere e dare il five a Tom Di Benedetto come niente fosse accaduto. Amo perso, e pure Tom alla fine l’ha capito, anche perché gli americani so veloci, rapidi, gente de business, e 80 minuti pe capì le regole del gioco jerano bastati. “Henry Louis, what a fuck are you laughing?” pare abbia detto al suo Mister il novello Closer. “Hasta siempre comandante”, avrebbe replicato l’asturiano. “No sarà la Slovachia a stopar la revolucion cultural”.

Fonte: kansas city 1927

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