IL ROMANISTA “Morosini una fatalità, ma bisogna fare di più”

Piermario Morosini

(M.Macedonio) – «Servono persone esperte. E presenti. E la presa di coscienza che la medicina dello sport ha la sua importanza. E quindi, che le società, professionistiche e non, investano di più in questo settore, destinandovi una parte del proprio budget».

Lo dice a chiare lettere, il dottor Ernesto Alicicco, all’indomani della tragedia che ha visto protagonista Piermario Morosini. «Per spiegarla (…) va naturalmente visto l’esito dell’autopsia. La mia impressione, basata solo sull’esperienza, è che più che di un problema al cuore possa essersi trattato di un’emorragia cerebrale. Lo deduco dalle modalità dell’episodio, con il giocatore che ha provato a rialzarsi almeno un paio di volte. Mentre, in presenza di un arresto cardiaco, si rimane immobili a terra. Com’è successo a Fabrice Muamba ».

 

Molto si è detto dell’ambulanza, arrivata con qualche minuto di ritardo.
Credo che se anche l’ambulanza fosse arrivata prima, ci sarebbero stati pochi margini. E se da un punto di vista medico-legale la morte è avvenuta in ospedale, è pur vero che, con un elettrocardiogramma e un encefalogramma piatti, c’era ormai poco da fare. Se è stato un aneurisma, non c’era visita che potesse prevederlo, a meno di sintomi tali da destare sospetti. E giustificare così una Tac a contrasto, che non si fa se non c’è motivo di farla. Perché nessuno farebbe accertamenti per verificare patologie a livello cranico. Non faremmo più idoneo nessuno, restringendo ancor più i nostri protocolli, che sono già rigorosi.

Che ruolo possono avere i farmaci?

E’ vero che troppo spesso si ricorre all’antidolorifico per un piccolo dolore. E che c’è chi pensa che per fare uno sforzo maggiore debba ricorrere all’integratore. Il farmaco serve solo in presenza di una patologia e non quando questa non c’è. Ai miei studenti dico sempre che anche l’acqua, che è l’elemento più importante per tutti noi, se presa nel dosaggio sbagliato può mandarti all’altro mondo. Allo stesso modo, l’abuso di farmaci può diventare un fattore di rischio serio, perché può dar luogo a patologie.

Episodi, che, al di là del possibile nesso tra loro, sembrano ripetersi con una frequenza sconcertante.
Nello sport, ma non solo in quest’ambito, le morti improvvise possono avvenire per colpa di malformazioni cardiache, ma anche perché spesso non vengono prestati i giusti interventi quando servono. Se c’è un arresto cardiaco, infatti, a meno che non si tratti di una cardiopatia grave, nei primi quattro minuti è possibile intervenire e rimettere in sesto il paziente. Trascorsi quelli, si va invece in anossia, ovvero il muscolo cardiaco non riceve più sangue ossigenato, e inizia la fibrillazione. E’ ovvio che avere in quei casi un defibrillatore a portata di mano, e soprattutto saperlo usare, può far diminuire la casistica.

 

Un mantra che si ripete, questo della necessità di avere con sé gli strumenti idonei, anche se si continua a non darvi seguito.
Da sempre ripeto che se non diamo un’educazione sanitaria a coloro che lavorano in ambito sportivo – perché non c’è solo il medico, ma anche il massaggiatore, il preparatore, il fisioterapista e lo stesso allenatore – è evidente che ci si può trovare impreparati davanti a un episodio di questo tipo. A me ne sono capitati ben quattro, di arresti cardiaci. E ringraziando Dio, si sono risolti bene tutti e quattro. Tre sono stati di minor entità: mi riferisco a quello del mortaretto esploso a Milano vicino a Tancredi, quello di Nela a Napoli, e quello di Paolo Conti all’Olimpico, quando esordì poi Tancredi. Tutti arresti “vagali”, che fortunatamente si rimettono a posto con poco. Senza immodestia, aggiungo che è però importante sapere come e dove mettere le mani.

 

Più grave fu certamente l’episodio di Lionello Manfredonia, a Bologna.
Ringrazierò fin che campo Giorgio Rossi, che da “signor massaggiatore” qual è, mi aiutò in quel frangente. E andò tutto bene, perché sia io che lui capimmo subito cosa serviva fare. Ricordo bene quel giorno. Era il 30 dicembre dell’89, e si giocava a undici gradi sotto zero. Quello di Lionello fu un arresto da sincope da freddo. E se in quei quattro minuti non fossimo riusciti nell’intento, anche Manfredonia, oggi, sarebbe tra quelli che purtroppo non ce l’hanno fatta. Oggi invece sta bene, e non risente più di quello che ha avuto. Nessuna malformazione, nel suo caso, né niente di prevedibile. E’ vero però che quel giorno, per via del freddo, bisognava prestare molta attenzione alla dieta pre-gara e ai consumi energetici. Manfredonia non amava i dolci e, nonostante i miei tentativi di fargli mangiare una crostata o prendere del miele, non volle ascoltarmi. Si riscaldò anche poco prima della partita. Motivo per cui presi a controllarlo, durante la gara, perché la mia paura era che potesse strapparsi. La sincope gli venne perché le sue difese non erano in grado di far fronte a quella temperatura.

 

E quando lo vide accasciarsi?
Fortuna volle che la panchina fosse solo ad una ventina di metri. Non ho aspettato neanche l’arbitro e, insieme a Giorgio, mi sono precipitato. L’abbiamo intubato e fatto il massaggio cardiaco. Poi, in ospedale, è stato per ventiquattr’ore in coma farmacologico, come si è soliti fare. Il giorno dopo – era l’ultimo dell’anno – si è risvegliato. E stava già bene.

 

Sotto accusa, oggi, i controlli periodici, non sempre all’altezza.
In chi fa sport, come professionista, ma a maggior ragione a livello dilettantistico e, ancora di più, nei settori giovanili, i controlli dovrebbero essere più frequenti ed approfonditi. Né dovrebbero essere risparmiate precauzioni. Un esempio: se un giocatore è stato a letto cinque giorni per un virus influenzale, lungi da me fargli riprendere gli allenamenti al sesto giorno, anche se non c’è più febbre. Perché non ho la certezza che il fatto virale si sia risolto. In quei casi, gli accertamenti ematologici – che io facevo ogni due mesi, e talvolta anche prima – e tutta una serie di altri esami possono risultare fondamentali.

 

Bastano, come accade oggi, un paio di controlli l’anno? E talvolta, tra i dilettanti, neanche quelli?
Un paio sono il minimo di legge. Possono bastare se in quel lasso di tempo non emergono sospetti che spingano ad ulteriori accertamenti. Quello che mi lascia esterrefatto è che non vi sia un controllo rigoroso a livello giovanile. Dove spesso si giocano partite senza che vi sia un’ambulanza nei paraggi. Il guaio è che nel mondo del calcio si trovano risorse per gli ingaggi e per le attrezzature sportive, ma se si va a chiedere qualcosa per il settore sanitario, non è facile trovare ascolto. Per mia fortuna, ho avuto alla Roma due presidenti, uno più lungimirante dell’altro, che mi hanno sempre accontentato, consentendomi di allestire un centro medico di grosso livello.

 

Non si sono fatti progressi in tal senso?
Ahimé, no. Negli ultimi anni si è fatto addirittura qualche passo indietro. Di certo, la mancanza di competenze specifiche ha spesso causato danni. E’ importante infatti che il medico non sia soltanto un traumatologo. Perché non serve: se uno si frattura una gamba, va solo “barellato” e portato fuori. Il medico di campo deve essere un po’ come il vecchio medico condotto, che sapeva fare più cose, e conosceva bene i suoi pazienti perché li aveva sempre sotto il proprio occhio.

 

Cosa fare oggi perché non finisca tutto nel dimenticatoio, come spesso è accaduto in passato?
Prendere coscienza che la medicina dello sport ha la sua importanza. E che serve quindi personale specializzato. Esperto e presente. E quindi, che tutte le società sportive, a partire dai dilettanti, destinino una parte del proprio budget alla prevenzione sanitaria.

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