IL ROMANISTA Due scuole, due tattiche, due filosofie di vita

Luis Enrique

(F. Bovaio) – Lo scontro tra la Roma di Luis Enrique e la Juventus di Antonio Conte ripropone ancora una volta, l’eterno braccio di ferro tattico e di stile di gioco tra giallorossi e bianconeri. Estro e voglia di fare propria la partita attraverso un bel gioco da parte romana e grinta, muscoli, tacchetti sui polpacci e asfissiante marcatura a uomo ( ma sarebbe meglio dire caccia all’uomo) da parte dei torinesi. Possesso palla da una parte, contropiede dall’altra. Il copione si ripresenta più o meno uguale ad ogni sfida tra Roma e Juve, anche se i fuoriclasse che negli anni hanno militato dall’una e dall’altra parte hanno chiaramente influenzato talvolta anche questo schema perenne, e le tattiche degli allenatori di turno.

D’altra parte nel calcio sono sempre esistite squadre che hanno fatto del gioco di rimessa, la propria arma vincente, basandosi sulla difesa strenua della propria porta e sulle veloci ripartenze il loro principale pregio. Il Chelsea ad esempio, nella semifinale contro il Barcellona, ha dato massima prova di questa tecnica. Ma in Italia è sempre stata la Juve la regina di questo gioco, consegnando spesso alla nazionale azzurra blocchi interi della propria squadra e della propria mentalità. Mentre la Roma è sempre scesa sulle fasce e intessuto gioco a centrocampo fin dai tempi di Giacomino Losi. Due scuole, due tattiche, due filosofie di vita. Due modi diversi di pensare che sono storicamente alla base della grande rivalità tra la Roma e la Juve. E che si accentuano negli anni ottanta, quando i giallorossi si riaffacciano ai vertici del campionato. Prima in Italia giocavano tutti alla stessa maniera, con la rigida marcatura a uomo e il libero staccato dietro alla difesa. Dal ritorno di Liedholm alla Roma nel 1979 in poi, invece, non fu più così, visto che il Barone introdusse la marcatura a zona come principio e il conseguente concetto di possesso palla. “Se l’abbiamo noi, non l’hanno gli altri” dice una delle sue più note massime. Potè permettersi la zona, tuttavia, grazie alla contemporanea presenza in squadra di due liberi vecchia maniera, Turone e Santarini, che lui faceva giocare in linea. Un’idea che lo stesso Santarini ha più volte affermato di essere venuta proprio a loro due e che Liedholm, quando gliela proposero, sposò in pieno. Nacque così, diciamo esagerando un po’, la Roma all’olandese. L’anno dopo si inserì Falçao tassello decisivo per portarla allo scudetto, vinto, tra l’altro, con un centrocampista come Di Bartolomei libero davanti ai difensori. La Juve di Trapattoni invece era il perfetto esempio di squadra all’italiana, con due fabbri come Gentile e Brio che si attaccavano agli avversari fin dagli spogliatoi (celebri i loro duelli con B.Conti e Pruzzo) e un medianaccio tutto muscoli, falli e grinta (Furino) messo a protezione della difesa, dietro alla quale giocava il suntuoso Scirea, lui sì calciatore di qualità sopraffina. I fautori del gioco a uomo sostenevano la Juve, quelli del calcio a zona la Roma di Liedholm. E Viola, dopo la partenza dello svedese (1984) ne ingaggiò un altro, Eriksson, per proseguire sulla stessa strada. Anche quest’ultimo, infatti, predicava la zona, le sovrapposizioni e le diagonali. La Juve, intanto, continuava imperterrita a marcare stretto con Trapattoni e la diversità tra le due squadre rimase intatta. Come intatto rimane lo stile Juve anche oggi, con Conte bianconero anche in questo sino al midollo.

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