IL ROMANISTA Chi ha Stek non stecca

Stekelenburg

(G. Manfridi) – Avevo più o meno tredici anni quando per la prima volta ho visto il mio nome pubblicato in calce a un mio scritto. Si trattava di una lettera spedita alla direttore del Corriere dello Sport, Antonio Ghirelli. Di ritorno da scuola, qualche giorno dopo l’invio, a bordo della Circolare che mi riportava verso casa, butto l’occhio sul giornale che sta leggendo un signore seduto a un passo da me, e che io, in piedi, sovrasto alle spalle premuto dalla massa dei passeggeri. Scruto i fogli nella vanitosa ricerca di qualcosa che potrebbe riguardarmi, e che trovo. Leggo un titoletto: “Ginulfi”, già questo mi fa trasalire. E’ l’argomento del mio scritto. Difatti, a seguire, scorro col cuore in gola le prime righe di quella lettera che da tempo ho perduto, ma il cui incipit ricordo a memoria:“Gentile Direttore, sono romanista e quando gioco, gioco in porta, Ginulfi è soprattutto, quindi, per questi motivi, il mio modello.”, poi, di seguito, mi dilungo a perorare la causa di Ginulfi in Nazionale nell’occasione di un’Italia-Austria valida per la qualificazione ai Mondiali e che si sarebbe giocata a Roma di lì a breve. Con fare compiacente sottolineo il fatto che la partita, stante la situazione di classifica che ci vedeva abbondantemente primi nel nostro girone, avrebbe avuto per noi il sapore di un’amichevole, e che perciò si sarebbe potuta dare al “più grande portiere giallorosso dopo Masetti – (altro reperto mnemonico di quella mia calorosa intercessione) –la gioia di una partita in azzurro”. Tanto fervore si dissolse nel nulla. Contro l’Austria giocò immancabilmente Zoff (destinato comunque a divenire un altro mio mito personale), ma ebbi perlomeno la soddisfazione di vedere schierata la nostra coppia difensiva Bet-Santarini. Finì 2-2, peccato che il definitivo pareggio degli austriaci venne su autogol proprio di Santarini; una beffa tripla, innanzitutto perché il nostro libero era tra i festeggiati della giornata, poi perché la piccola sventura si consumò sotto la Sud e infine per la meccanica dell’azione, col romanista a impattare di schiena un tiro avversario trasformandolo in uno spettacolare pallonetto che se si fosse combinato con la presenza del mio adorato Ginulfi tra i pali mi avrebbe precipitato nella più nera delle costernazioni. Sta di fatto che il mito di Ginulfi ha governato la mia giovinezza sportiva, a sua volta definita da quei due dati salienti che con orgoglio ribadisco: “Sono romanista, e quando gioco, gioco in porta”. Da allora, chiunque si sia avvicendato tra i pali della Roma si è perciò guadagnato, quasi automaticamente, una buona quota del mio affetto e della mia predilezione. A cominciare da Paolo Conti, malgrado sia stato lui a incalzare lo stesso Ginulfi, sino ad accantonarlo. Paolo Conti di meriti ne aveva, ma purtroppo offuscati da un rapporto controverso con la maglia che indossava. Ricordo che un giorno ebbe a definire la Roma un fenomeno di autocombustione; ancora oggi vorrei chiedergli di spiegare meglio una definizione che comunque mi fa fiutare qualcosa di vero. La sapiente circolarità del fato fece sì che Ginulfi andasse a concludere la sua attività agonistica a Verona e che proprio in un Roma-Verona di alcuni anni dopo dovesse avvenire, durante l’intervallo, l’avvicendamento tra Paolo Conti e Franco Tancredi. Un epifania! Con Tancredi mi venne nuovamente offerto un vero secondo amore giustificato non solo dalla qualità obiettiva dell’atleta e dall’empatia caratteriale, ma stavolta pure dai risultati. Dopo Tancredi ho ammirato molto Cervone, ma soprattutto per le sue potenzialità, ho assai rispettato Konsel, e ho strenuamente difeso Antonioli, a cui attribuisco tanta parte nella conquista del nostro terzo scudetto. Basterebbe ricordare la sua parata su Briaschi in Roma-Atalanta, un capolavoro di tecnica e reattività senza il quale non ci sarebbe mai stata la festa. E poi come dimenticare quel che fece sul rigore di Mihajlovic, col pallone tirato via dal sette a pochi minuti dalla fine di un derby che altrimenti avremmo senz’altro perso? Successivamente, e in particolare negli ultimi tempi, la girandola di nomi che si sono avvicendati tra i nostri pali è stata davvero incessante, col danno aggiuntivo di aver fatto riemergere nell’interezza della sua gravità il rimpianto per una carriera sportiva che abbiamo mandato a costruire la fortuna di altri: quella di Angelo Peruzzi. Insomma, sino all’arrivo del titano Stekelenburg ho trovato poco sostegno concreto alla stima che avrei voluto di volta in volta tributare ai nostri portieri titolari, che assai spesso nemmeno riuscivamo a considerare dei veri titolari; ma ora, con l’olandese, mi sembra di essere tornato a vivere una passione simile a quella sperimentata nei giorni in cui scrivevo la lettera a Ghirelli. Forse, molti romanisti ancora non hanno ben capito quale straordinario campione abbiamo in porta: un autentico punto di partenza per impostare, sia nell’organico che nel gioco, l’intera squadra. Stek è capace di risolvere con un solo gesto ciò per cui tanti altri ne debbono impiegare tre. E’ parsimonioso nei voli poiché conosce la difficile arte di restringere lo spazio della porta mercè un raro senso della posizione; sa fare volume oltre se stesso e, al pari Zoff che in questo fu maestro, è in grado di usare la gambe come braccia. Per non dire della sua attitudine a interpretare il ruolo di regista arretrato come nessun portiere al mondo ha mai saputo essere. Auspico che davanti a lui le cose prendano un più regolare assetto, anche per vedere all’opera questo magnifico portiere al meglio delle sue capacità. Ancora mi mordo le mani al pensiero dei prodigi che gli ho visto fare a San Siro e che non sono serviti a nulla. Quando si può far conto su un fuoriclasse di questo livello, non vincere è uno speco delittuoso

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