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IL TEMPO. Quel fascino di un ruolo ritrovato

Daniele De Rossi

(Il Tempo – G. Giubilo)  – La mente: che dirige, che illumina, che dà ordine, che detta i ritmi. La figura del regista, che il calcio dei giorni nostri ha troppo spesso cancellato o dimenticato, un ruolo al quale la storia ha consegnato interpreti indimenticabili, in mano la bacchetta del direttore d’orchestra, quello che tutti gli esecutori, anche isolisti di prima grandezza, sono tenuti a obbedire.

Saranno due azzurri, sui podi della stracittadina: uno occasionale, per un’amichevole che non ha lasciato tracce e neanche un seguito, l’altro che si avvia e entrare nel club degli ultracentenari. Quelli premiati a Pescara prima della partita con gli irlandesi del Nord e che qualcuno degli addetti ai lavori ha definito, co n involontario umorismo, pluricentenari, scomodando dunque anche il buon Matusalemme. Ledesma, argentino di nascita, professionista di grande spessore come del resto quasi tutti i suoi connazionali (Maradona accettabile variante impazzita), l’uomo delegato a gestire il centrocampo laziale, reparto che,come del resto in qualsiasi squadra, è fondamentale anche per il rendimento degli altri reparti. Quando si parla di Lazio, in questa chiave penso che il più straordinario interprete del ruolo rimanga Mario Frustalupi, un regalo dell’Inter nell’affare legato alla cessione di Peppiniello Massa. Per quanto riguarda Daniele De Rossi, restituito alla sua naturale posizione di regista arretrato, i riferimenti sono meno immediati, degli strateghi in giallorosso mi piace ricordare su tutti Falcao e Di Bartolomei, anche perché sono rimasti due simboli insostituibili nel cuore dei tifosi, un privilegio averli visti giocare nella stessa formazione. Senza mai pestarsi i piedi, ognuno rispettando caratteristiche e prerogative del compagno, non a caso grandi protagonisti nella conquista del secondo scudetto. Si deve cercare nei racconti di una storia assai più lontana nel tempo per celebrare sapienti amministratori del gioco come il laziale Ramella e il romanista Mornese, tra gli artefici del primo tricolore.

Ma sembra giusto, nella individuazione dei personaggi che hanno offerto al ruolo un significativo contributo di nobiltà, citare dal Michele Andreolo mondiale al più recente Dino Sani «cervello» di un grande Milan, a quello Schiaffinopassato con le stesse prerogative, dal rossonero al giallorosso. Altri campioni sono stati definiti registi, secondo me impropriamente: dal Platini che si toglieva lo sfizio di vincere il titolo di capocannoniere, all’Antognoni che aveva classe cristallina e lampi geniali, ma senso geometrico quasi impalpabile. Sicuramente più adeguato a questi compiti istituzionali Giuseppe Giannini, che sapeva unire ordine tattico a invenzioni illuminanti, lo stesso contributo offerto al secondo tricolore laziale da Juan Sebastian Veron, obiettivo non intravisto dai club più ambiziosi, fino a quando fu la Sampdoria a lanciarlo sulla scena italiana. Vorrei chiudere questo lungo excursus con la citazione del più anomalo, ma forse uno dei più affascinanti tra i playmakers. Giocava, Andreas Brehme, sulla fascia sinistra difensiva, quando il punto di riferimento avrebbe dovuto essere Matthaeus, ma l’impostazione del gioco era costantemente affidata a questo straordinario mancino, non a caso felicemente ambidestro sui calci piazzati. Fenomeno unico, in tutti i sensi.

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